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Riccardo Calimani, PAOLO - L'ebreo che fondò il cristianesimo, Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano, 1999 e Mondolibri S.p.A. ("Il Circolo"), 2000.

Recensione di Guido Pagliarino

Dopo le scuole di critica al cristianesimo sorte fra la metà del XVIII secolo ed il XX (illuminista-deista, razionalista-critica, storia comparata delle religioni, fusa in vari autori con la precedente), le cui tesi da tempo, dopo la caduta dello scientismo positivista, sono state falsificate dalla scuola tradizionalista cattolica, è viva e in espansione grazie ai mass media, la scuola dell'Università Ebraica di Gerusalemme, nata nella prima metà dello secolo scorso. Sue tesi sono che Gesú era personaggio storico, che si trattava d'un ottimo rabbino, degno di stare a fianco dei rabban Hillel e Shammai, che non era Dio ma solo uomo, che non volle fondare nessuna nuova religione e che il Cristianesimo ebbe fonte essenzialmente in Paolo di Tarso, giudeo ellenizzato: tesi, quest'ultima, che fu già di positivisti, il Comte ed altri. Gesú, dicono, nel Nuovo Testamento è presentato in modo distorto, Paolo è il traditore del vero Gesú. Si noti che non presentano alcun documento oltre al Testamento, soprattutto i Vangeli (anche apocrifi, come il vangelo di Pietro) e le Lettere paoline. Paolo, insistono, ha eretto un muro col giudaismo facendo Dio di Gesú, secondo il modello greco-romano della divinizzazione d'un uomo. Anche la scuola cattolica tradizionalista è d'accordo sulla continuità di Gesú con l'ebraismo, anzi era giunta per suo conto a quest'idea, e ritiene dunque Cristo genuinamente ebreo, criterio di continuità, ma applica allo studio della sua figura anche il criterio di discontinuità, per il quale quanto di nuovo egli predicò non poteva essere immaginato non solo dai giudei ma neppure dalla prima Chiesa, perché contrario non solo alla mentalità ebraica classica ma pure a quella giudeo-ellenizzata e a quella gentile greca. Primarie figure della scuola di Gerusalemme sono Joseph Klausner, Shalom Ben Chorin, David Flusser: quest'ultimo, precisamente, è un indipendente che non pare avere tesi preconcette da dimostrare: lo considero il più serio e spassionato. Il primo in ordine di tempo fu il Klausner con il volume Jeshu ha-nozrî - Gesú il nazareno - del 1922, tradotto in numerose lingue, la cui tesi fu accolta in ambiente ebraico, abbandonando quella dei Talmud (II - V secolo) che presentavano Cristo come una sorta di mascalzone, mago e mestatore figlio d'una pettinatrice ebrea e d'un soldato romano di passaggio.

In Italia è ormai noto Riccardo Calimani, buon divulgatore su ampia base bibliografica, autore d'un libro su Gesú ebreo e, di recente, di questo su Paolo, apostolo ch'egli giudica "un ebreo trasgressore" a differenza di Gesú "buon ebreo osservante", come scrive nel congedo dell'opera: avrei preferito la dichiarazione in limine, così che la sua tesi fosse chiara sùbito ai lettori. Il saggio ha avuto critiche entusiaste sulla stampa laicista. Poiché il volume è piuttosto corposo, mi devo limitare a cenni. Vedrà in dettaglio il lettore, se avrà voglia di cimentarsi con tale opera. Anch'essa si fonda interamente sul Testamento e su bibliografia a questo improntata. Inizia sulla figura di Paolo, uomo "aperto a numerose e differenti influenze culturali e religiose", quindi, da una parte, alla Grecia stoica e al filosofo ellenizzato Filone alessandrino e, dall'altra, all'Israele della Sinagoga: Paolo è un fariseo, allievo in Gerusalemme del rabbino Gamaliele I e, prima della conversione, persecutore di giudeocristiani secondo l'ortodossia dei sacerdoti del Tempio, come risulta dal Nuovo Testamento; uomo che accoglie l'idea farisaica della risurrezione del corpo, non della sola anima. Per l'autore c'è una "ambiguità di fondo che impedisce di ascriverlo interamente o nell'ambito dell'espressività ellenistica oppure di quella ebraica ma che induce a considerarlo un ibrido": del reale nuovo che porta il Gesú dell'Evangelo, e dell'evangelico vecchio da interpretare alla luce di quel nuovo, niente: opera di Paolo. Troviamo nel libro la tesi consunta che gli autori del Nuovo Testamento non avrebbero semplicemente narrato il realizzarsi storico in Cristo delle profezie, ma avrebbero adattato la sua figura alle stesse, tesi mai provata con documenti ma solo basata sull'anticristianesimo di quei critici: l'eventuale mala fede degli evangelisti dev'essere dimostrata, non basta ipotizzarla. Tutti i documenti antichi di storia sono apologie, eppure gli avversari del cristianesimo respingono solo quelli cristiani o li leggono accogliendone quanto pare avvalorare le loro tesi mentre ritengono il resto manipolato. È pur vero che i Vangeli sono anzitutto libri di fede, ma hanno base storica, fino a prova contraria, che quei critici semplicemente negano. Rifiutiamo forse le notizie del De Bello Gallico perché si tratta di un'apologia di Cesare, e per di più dettata dall'interessato? Certamente no, visto che non siamo visceralmente anticesariani. Se rifiutassimo le apologie, non ci sarebbe più storia antica, ché quello era il modo di fare storia nell'antichità. Il Calimani passa all'ambiente ellenista della diaspora ebraica, cui Paolo appartiene, e a quello dei gentili convertiti o simpatizzanti con l'ebraismo ellenizzato, per evidenziare, come già avevano fatto i razionalisti, che il terreno è favorevole alla predicazione dell'apostolo di Tarso. Nulla di nuovo e si può anzi concordare: è ormai giunta, duemila anni fa, la pienezza dei tempi di cui dice Paolo stesso, coi Libri veterotestamentari che profetizzano il Messia e parlano della risurrezione dei giusti e uno stoicismo che certo giova all'evangelizzazione, di cui l'apostolo si serve quale strumento per convertire gentili. Neppure niente di straordinario troviamo in un lungo capitolo dedicato a Gesú vero ebreo, se non certe affermazioni che restano tutte da dimostrare, ad esempio che i discepoli di Gesú non paiono considerarlo quale discendente di Davide: nemmeno che gli autori dei Vangeli, che lo affermano, non appartengano alle scuole apostoliche; ma per questo saggista sono scritti composti tra il 70 e il 150, non tra il 50 e il 100 quando testimoni oculari di Cristo erano ancora vivi, come dimostra invece la ricerca cristiana, basata fra l'altro sulla citazione dei Libri di Marco, Matteo e Giovanni quali frutti della Chiesa apostolica in una lettera di Papia, discepolo di Giovanni, precedente il 120, anno della sua morte. Troviamo evidenziate nel saggio analogie con altre incarnazioni e risurrezioni secondo religioni pagane, come la pioggia d'oro del dio che feconda Danae madre di Perseo, eroe poi assunto a costellazione. I professori delle religioni comparate, chiusi nelle loro biblioteche universitarie, non avevano avuto difficoltà nel trovare somiglianze, comunque non sostanziali teologicamente, ma non si trattava di storia bensì di ragionamenti analogici: non avevano rinvenuto alcun documento antico che provasse la dipendenza del cristianesimo da religioni diverse da quella ebraica della Promessa, e la storia si fa provando, non congetturando. Il Calimani dichiara che i Sinottici conservano gli elementi più significativi del pensiero gesuanico, però non sono inseriti nel giusto quadro antropologico e culturale; ma l'affermazione è contraria a quanto risulta dalla ricerca della scuola cattolica (criterio di continuità); e dice che Gesú non sembra voler sostituire una dottrina nuova a un'altra preesistente: vero, ma solo aggiungendo ch'egli l'affina e completa col nuovo che porta; secondo quest'autore, tutti i precetti ebraici sono sostanzialmente accolti da Gesú: "Gesú riafferma il primato della coerenza alla sostanza della Legge, di tutta la Legge contenuta nel Pentateuco e fatta di ben 613 mitzwòt o prescrizioni"; sappiamo invece, dando fiducia alla buona fede degli evangelisti, ch'egli rifiuta innumeri prescrizioni, mantenendo i fondamentali dieci comandamenti e aggiungendone uno nuovo, di amare e fare il bene al nemico. Per l'autore, quest'idea è semplicemente quella hilleliana farisaica e, affermando che Cristo "esprime lo stesso concetto", cita Hillel: "Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te", paragonando questo detto a quello gesuanico: "Tutto quello che voi volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti", nemmeno che astenersi dal fare il male fosse lo stesso che fare il bene. Per il Calimani, "i primi gruppi di fedeli di Gesú restarono rispettosissimi dei riti e delle regole della Legge e se così non fosse stato, sarebbe loro stata interdetta la frequentazione del Tempio". Sì, gli apostoli, anche Paolo, frequentavano Tempio e sinagoghe, è negli Atti; ma vi evangelizzavano; ed è storico che l'accesso alle sinagoghe, il Tempio ormai era distrutto, fu loro interdetto, con la scomunica dell'anno 85 circa da parte del capo del giudaismo Gamaliele II, che vietò addirittura di rivolgere la parola ai nazareni e ai minim (i cristiani giudei della setta ebionita, che credevano che Gesú fosse solo uomo e che per l'autore, secondo la sua tesi e contro gli Atti, coincidono coi giudeo-cristiani della chiesa di Gerusalemme, guidata da Giacomo il minore). Questo non significa, come ricorda il saggista e come gli Atti stessi riportano e in forma probabilmente edulcorata, che non ci fossero stati contrasti fra coloro, come appunto Giacomo, che volevano circoncisi anche i cristiani gentili e Paolo e i suoi che lo ritenevano ormai inutile e d'ostacolo all'evangelizzazione, con vittoria dei secondi. Il saggista pone la questione se Gesú fosse un esseno di Qumran, senza voler rispondere ma evidenziando certe somiglianze con pratiche di quei monaci, come la cena rituale a base di pane e vino e il numero di dodici discepoli (secondo le dodici tribù d'Israele) attorno al maestro, ciò che ritengo non debba fare scalpore perché, semplicemente, era nell'uso religioso del tempo, non solo presso gli esseni (criterio di continuità); ma a differenza del Flusser, in un suo interessante libro su Qumran, il Calimani non scrive che gli esseni si amavano solo tra di loro e odiavano e maledicevano i non esseni, aspettando un finale Giorno dell'Odio in cui tutti coloro che non erano della setta sarebbero stati distrutti: è un po' difficile ipotizzare che l'insegnamento d'amore di Cristo per i nemici sia passato per il gruppo esseno. L'autore dichiara che gli evangelisti attribuirono a Gesú una conoscenza in anticipo della distruzione di Gerusalemme e del Tempio "per impressionare fedeli e lettori": naturalmente, anche qui l'unica fonte è il Nuovo Testamento, per cui suppone la mala fede degli evangelisti, volti secondo lui non solo ad adattare a Cristo le antiche profezie, ma a sostituire "post eventum le anticipazioni di eventi già accaduti prima della stesura di queste narrazioni": già sappiamo che, per il Calimani, i Vangeli sono tutti, senz'altro, successivi all'anno 70, anno della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Per quanto riguarda l'istituzione dell'Eucaristia, certo inserita in una cena tradizionale ebraica di tipo pasquale e non si tratta di novità, secondo quest'autore il fatto "probabilmente in tempi successivi si è caricato di motivi teologici": dov'è la documentazione di quel probabilmente, che escluderebbe che Gesú stesso abbia istituito l'Eucaristia?! Per quanto riguarda i processi ebraico e romano a Gesú, si desume, lungo diverse pagine, che gli evangelisti hanno affabulato per scaricare la colpa sul direttorio giudaico, che Gesú fu arrestato direttamente dai Romani quale sospetto agitatore politico, mentre sacerdoti e farisei del Tempio non ebbero a che farci, anche perché, dice l'autore, alla vigilia di Pasqua non si tenevano processi presso il Sinedrio e, per di più, di notte. Citando il Guignebert, e più autori razionalisti egli richiama nel corso del saggio, con particolare simpatia per il cattolico scomunicato Loisy, riporta che solo "rimane che il Nazareno fu arrestato dalla polizia romana e giudicato e condannato dal procuratore romano, Pilato o un altro": perché o un altro, visto che parla di Pilato anche lo storico Flavio (anni 94/95) e in una parte del suo discorso su Gesú non sospettabile di interpolazioni cristiane, a differenza delle proposizioni dove si mostra convinto, lui non cristiano, che Gesú risorse e dunque ch'era il Messia? Forse perché nel Credo è detto, per evidenziarne la storicità, che Gesú patì sotto Ponzio Pilato? Vero è solo, stando ai documenti che possediamo, che gli evangelisti pongono in ombra la colpa romana e calcano su quella del Sinedrio e che la realtà storica è meglio presentata, in forma simbolica, nell'Apocalisse (che a sua volta non promana dalle chiese paoline ma dal giudeo-cristianesimo), in cui le sataniche bestia del mare (potere politico romano) e bestia della terra (potere religioso politicizzato del Tempio e del Sinedrio) s'accordano e hanno pari responsabilità nell'uccisione di Cristo. Per il Calimani, la sua risurrezione è un mito, che sorge per consolare i discepoli dalla sua morte e simboleggiare la speranza in un lontano futuro di bene, secondo certa apocalittica giudaica. Creatore di questo mito sarebbe Paolo di Tarso, su base ellenica, proprio lui che scrive che se il Cristo non è veramente risorto, è vana la sua predicazione e la fede di chi lo ascolta: un bel bugiardo sarebbe quell'apostolo, non è vero? E per cosa, per farsi perseguitare e martirizzare, lui che prima aveva un'ottima posizione presso il Tempio? Martirizzare? No, non è mica detta: per l'autore, ultima proposizione del saggio, "il suo destino ultimo resta tuttavia avvolto nella leggenda". D'altronde Paolo, per il Calimani, ha problemi psichici non piccoli, ossessionato com'è dal peccato, e dunque li sublima immaginandosi salvato da Cristo nonostante la propria concupiscenza, col solo obbligo di avere ferma fede nella Risurrezione: "un senso di profondo stordimento che lo aveva spinto verso un itinerario del tutto personale"; e quella bella notizia di fantasia, altruisticamente, Paolo vuole diffondere il più possibile. Dalla metà del volume, il saggista percorre le Lettere dell'apostolo, conducendo di fondo quella tesi. Prima di congedarmi, porto qualche esempio di quanto scrive al riguardo. Trattando della I Tessalonicesi paolina, afferma, a proposito della Risurrezione, che un semplice "midràsh ebraico (sorta di raccontino simbolico con riferimento alle antiche Scritture - n.d.a.) patrimonio di una setta marginale quale quella dei giudeo-cristiani di Gerusalemme (...) diventa per Shaul Paolo il punto di partenza di un nuovo itinerario spirituale e tende ad arricchirsi via via, nel suo epistolario, di dogmi estranei alla mentalità ebraica". Midrash? Fatto è che, per i Libri del Nuovo Testamento, gl'increduli apostoli, Paolo compreso, tutti giudei, credono proprio e soltanto perché vedono davvero Cristo risorto; e Matteo evangelista ben si rende conto della difficoltà di convertire ebrei che non l'hanno visto, quasi invincibilmente scandalizzati dall'idea che un uomo sia Dio, e dunque, nel suo Vangelo, espressamente indirizzato a giudei, molto insiste sulle profezie. Gli Evangeli secondo Matteo e Marco (se vogliamo trascurare Luca perché segretario di Paolo e Giovanni perché si serve pure di concetti ellenici) hanno base nel cristianesimo ebraico promanante dalla chiesa di Gerusalemme, non dalle comunità paoline; e sebbene l'autore affermi che quei testi sono significativamente successivi alle Lettere di Paolo, scritte tra il 52 e il 64, è convinzione diffusa presso gli storici cristiani che Marco sia invece più o meno contemporaneo e che Matteo greco, sebbene dell'80 circa, tragga da un precedente Vangelo in Aramaico matteano, andato perduto (secondo il citato Papia vescovo). Il Calimani afferma che Paolo riesce "a farsi capire dalle masse popolari: con la minaccia, con la blandizia, con la capacità di adulare i fedeli, di offrire loro la possibilità di sentirsi partecipi di un grande processo cosmico, sia rendendoli orgogliosi sia umiliandoli". "La sua contrapposizione a ogni sapienza umana è radicale" (vero: l'Infinito non può essere compreso dalla piccola mente umana; solo Rivelato) e "la croce di Dio, ormai indiscutibile verità metafisica, si oppone a ogni sapienza del mondo". Nella terzo viaggio missionario di Paolo "la sua angoscia è arrivata al culmine: solo la fede può superare questa tragica e terribile impasse". "Nel disegnare una visione metafisica del mondo dai contorni oscuri e minacciosi, Shaul Paolo sembra mostrarsi più un poeta che un apostolo, un uomo in preda a grandi tensioni, in difficoltà nel governare la propria agitazione e nel comporre i propri dissensi interiori".

Guido Pagliarino